1. Digione


    Data: 05/10/2018, Categorie: Etero Autore: Pericolo, Fonte: RaccontiMilu

    ... scorrerie di foraggiamento mi portarono in ambienti strani. Imparai la strada che porta il nome di Breverick Josh ‘musicista morto, credo- dove era un’infilata di casini. Sempre allegria da quelle parti: c’era odor di cucina, e biancheria appesa ad asciugare. Ogni tanto scorgevo quelle povere mezze sceme che oziavano là dentro. Se la passavano meglio delle disgraziate del centro, nelle quali m’imbattevo recandomi ai grandi magazzini. Lo facevo spesso, per stare al caldo.
    
    Tornavo all’alloggio. Il palazzo ducale cadente, pietra a pietra, membro a membro. Gli alberi striduli di gelo. Incessante trapestio di zoccoli di legno. L’università che celebra la morte di Goethe. Idiozie. E tutti sbadigliano e si stirano e si ritirano.
    
    Dal viale entro nel cortile e mi piomba addosso un senso di abissale inutilità. Dovetti aspettare almeno mezz’ora prima che il vecchio custode finisse il suo giro ed aprisse il portone. Mi guardavo attorno calmo e tranquillo, assorbendo ogni cosa, l’albero morto davanti la scuola coi suoi rami contorti, la casa oltre la strada che durante la notte aveva mutato colore. All’improvviso, fuori dal nulla, comparvero due amanti: ogni tanti metri si fermavano ad abbracciarsi, e quando non potei più seguirli con gli occhi seguii il rumore dei loro passi, sentii la sosta improvvisa, e quindi ancora ...
    ... il lento passo serpeggiante. Sentivo i loro corpi piegarsi e cedere contro la staccionata, sentivo le scarpe scricchiare quando i muscoli si tendevano nell’abbraccio. Per la città vagavano, per le strade contorte, verso il canale vitreo dove l’acqua giace nera come il carbone. C’era qualcosa di fenomenale in questo. Mi avvicinai. Scorsi lei, di schiena, inginocchiata, come se si trovasse all’altare. Scorsi lui, gli occhi chiusi, un sorriso da ebete, come se si trovasse in paradiso. Mi appoggiai alla corteccia di un albero, rimanendo concentrato per udire i loro gemiti.
    
    La notte incombeva cupa, puntuta come una daga, ubriaca come un folle. Eccola, l’infinitezza del vuoto. Percepivo il rumore sordo della pelle che si ritrae dalla cappella per poi ricoprirla. Lei pregava la divinità, affinché la ricoprisse di fede e lui, emerito imbecille, non aspettava altro che le porte del paradiso si spalancassero, inondando la sua inutile esistenza di una luce, sinonimo di piacere. Non ce n’erano due come loro in tutta Digione.
    
    Intanto il vecchio faceva il suo giro; sentivo il tintinnio delle chiavi, lo scricchiolar delle scarpe, il passo fermo, automatico. Alla fine lo sentii venire verso l’ingresso per aprire il portone, un portale anzi, mostruoso, arcuato, senza fosso davanti. Accesi una sigaretta, deciso a rientrare.
    
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